Successo per il labirinto di sentimenti interpretato da Lunetta Savino

La solitudine può essere distruttiva. Nessuno riesce a stare da solo, ma si può essere soli tra tante persone. Anche la famiglia può essere gabbia di un isolamento involontario e devastante.

La madre, interpretata da Lunetta Savino, incarna il dramma dell’essere genitore attento e affettuoso che reagisce in modo spropositato all’assenza del figlio Nicola, (Niccolò Ferrero) andato a convivere con la sua compagna Elodie (Chiarastella Sorrentino).

Una casa piena diventa improvvisamente vuota. Il nulla si affaccia dalle porte spalancate quanto mai sigillate dall’indifferenza della quotidianità. Infissi che rispecchiano assenze presenze addomesticate come in una gabbia senza sbarre. La regia di Marcello Cotugno crea un mondo quasi incantato, in un immobile movimento parallelo, la scena accoglie e raccoglie il mondo concepito dalla madre.

Gli affetti di una normale famiglia si spargono nella stanza/cucina: le scene si ripetono in una moltitudine di soluzioni mentali che cercano di riordinare un equilibrio troppo fragile.

La madre rivive più volte i suoi ricordi, li aggroviglia in una giostra di sentimenti patologici e dolorosi. Si confonde tra i personaggi che la circondano, avvinghiandosi ad essi in una perpetua e irriverente caparbietà.

Non c’è scampo per nessuno. Non c’è salvezza neanche per Anna. La madre, ormai in preda a barbiturici e alcool, diventa un pericolo per sé stessa e per gli altri. L’unica fine è quella dell’essere custodita in un camice bianco che la frena solo fisicamente, lasciandola libera di pensare ancora e ancora.

La speranza fugace è sempre la stessa: il ritorno impossibile al passato. La bellezza e la gioia di crescere i figli nei gesti più semplici, come la colazione o accompagnarli a scuola, nei quali lei si sentiva appagata.

Tutto è svanito e nessuno la riconosce utile, necessaria.

Neanche il marito (Andrea Renzi) può essere d’aiuto. È diventato un estraneo senza pudore che non ha risposte ai suoi perché.

Anna è rinchiusa per sempre, ma resta la sua assenza che è più presente che mai e si trasforma nel senso di colpa, pervadendo l’aria e obbligando tutti a un esame di coscienza.

La vita non si può arrotolare come un filo di lana, dipanato si consuma come il filo dei ricordi di Anna che tenta di districarlo inutilmente.

È troppo tardi per accorgersi che suo figlio è lì o è solo la sua mente che lo immagina.

Le ha portato una rosa rossa. Forse è solo un ricordo o è troppo tardi perché lei non c’è più. Buio.

“La madre” di Florian Zeller, pluripremiato drammaturgo e regista francese, è andato in scena a Benevento per il Festival Città Spettacolo il 13 marzo al Teatro Comunale “Vittorio Emmanuele”.